PATHOLOGY – Awaken To The Suffering (Victory)

Subito dopo la pubblicazione di quel Legacy Of The Ancients che, a mio modestissimo parere, è stato il miglior album di brutal death metal americano uscito l’anno passato (ne abbiamo parlato qui), ai Pathology iniziò a dire talmente male che per un attimo ne avevo temuto lo scioglimento per cause di forza maggiore. L’improvviso addio di Matti Way, ex ugola d’oro dei Disgorge, non fu infatti che l’inizio dell’ennesima, estenuante girandola di cambi di formazione, che ebbe come ciliegina sulla torta un terribile incidente col tour bus nel quale per un pelo non ci lasciarono tutti le penne. Onore quindi alla caparbietà del batterista e leader Dave Astor, un passato nei Cattle Decapitation, che in tutto ‘sto casino è riuscito a mantenere la barra dritta e riportare la band in studio ad appena un anno di distanza dal disco precedente. Complice una formazione in buona parte rimaneggiata, Awaken To The Suffering suona più curato e meno intransigente del suo predecessore, con delle aperture melodiche dal sapore quasi europeo che rendono più dinamica e variegata questa nuova lezione di efferatezza sonora. La matrice resta però un brutal death violentissimo e in grado di suonare fresco e d’impatto nonostante l’impianto piuttosto tradizionale, che manderà in solluchero tutti coloro che al primo appuntamento con una ragazza le fanno vedere Buio Omega e Cannibal Holocaust per saggiarne il livello di compatibilità (i testi hanno però abbandonato quasi completamente lo splatter e gravitano sempre di più intorno ad argomenti fantapolitici e cospirazionisti… C’è pure un brano intitolato Opposing The Globalization). L’accento è posto molto più sul groove che sulla velocità, tra lancinanti ripartenze e mid-tempo assassini e pesanti come un rullo compressore guidato da una lottatore di sumo che si è appena mangiato una megattera al sushi bar sotto casa, e i riferimenti e l’attitudine richiamano alla cara vecchia scuola di Chicago, al netto di una perizia strumentale e di una pulizia dei suoni non indifferenti. Personalmente continuo a preferire Legacy Of The Ancients, anche perché il pur valido carneade Jonathan Huber non è fognario come Way, che con il suo gurgling da sturalavandini aggiungeva quel quid di purulenza che rendeva l’insieme ancora più marcio, ma siamo comunque di fronte a un godibile disco di genere che conferma i californiani tra le migliori formazioni rigurgitate dalla scena death metal Usa negli ultimi anni. La colonna sonora ideale per resistere all’apocalisse zombi prossima ventura. (Ciccio Russo)

2 commenti

Lascia un commento